mercoledì 11 ottobre 2017

La riscossa degli acquaioli del Mezzogiorno


La riscossa degli acquaioli del Mezzogiorno

di Riccardo Petrella


I militanti per l’acqua bene comune e diritto di tutti gli abitanti della Terra – gli “acquaioli» – di tutte le regioni del Mezzogiorno sono sempre di più nella lotta contro la prepotenza antidemocratica e il mercantilismo predatore dei gruppi sociali dominanti.
Dal 2011 in particolare, l’intera classe dirigente politica, economica e tecno-scientifica italiana (salvo rare eccezioni) è in uno stato di potenza illegale. Rifiuto esplicito di rispettare gli esiti referendari sull’acqua bene comune e diritto umano e, addirittura, decisione di continuare a legiferare in materia di acqua contro la volontà espressa dalla stragrande maggioranza dei cittadini italiani. Stato d’illegalità, anche, nei confronti delle direttive UE, tanto che la Commissione europea ha dovuto fare severe sanzioni contro l’Italia per flagrante inadempienza nel campo della salvaguardia e protezione delle risorse idriche, della qualità delle acque potabili e della presentazione/esecuzione  di piani nazionali di gestione dei bacini idrografici. Stato d’illegalità macroscopica, infine, riguardo l’insieme delle azioni di gestione del territorio, dei suoli, dei corpi idrici, illustrato dal fatto che il governo non fa che navigare a vista, nell’urgenza continua, in reazione ai sempre più frequenti e gravi disastri delle inondazioni, delle siccità, delle frane, dei terremoti causati in larga parte dall’incuria, dagli interessi corporativi a corto termine, e  dalla corruzione dei gruppi dominanti al potere.
Nel frattempo il Rapporto 2017 dell’Asvis, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile conferma che la scarsità di acqua è una seria minaccia in dieci Regioni, cioè a dire Emilia Romagna, Veneto, Toscana, Marche, Lazio, Molise, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna. Non a caso, quest’estate hanno dichiarato lo stato di calamità. E che fanno i poteri (pubblici e privati) che «governano» l’Italia?
I governi succedutisi in questi ultimi anni, anche a livello regionale e delle collettività locali, sono stati maggiormente preoccupati dal tappare buchi e dal rispondere ai diktat delle oligarchie europee in nome dell’austerità di bilancio nell’affannosa ricerca di aumentare il PIL di qualche decimo di frazione. I bollettini dei dominanti non parlano che di crescita del Pil per poi trafficare i dati sull’occupazione, sulla salute, e dimenticare di parlare dello stato del territorio e della situazione catastrofica nella quale si trovano i beni comuni ed i servizi pubblici del «Bel Paese», a partire dall’acqua.
Così, il progetto iniziale di legge su «Principi per la tutela, il governo e la gestione pubblica delle acque»,  presentato nel 2012 (primo firmatario l’On. Federica Draga – M5S) dai deputati M5S e SEL è stato profondamente stravolto dalla Camera nel 2015, tanto che i 92 deputati firmatari hanno tolto la loro firma al testo ancora in esame al Senato, ma nulla di serio è stato fatto dai gestori delle grandi società (SpA) multiutilities quotate in Borsa (HERA, IREN, ACEA, A2a…) che oramai dominano «l’industria idrica» italiana. La media nazionale delle perdite d’acqua delle reti idriche del paese è salita nel 2016 al 38,2 dal 35,6 % del 2012 (dati ISTAT ripresi dal Blue Book di Utitalia 2017).
Per quanto riguarda i poteri privati, essi hanno investito pochissimo nelle reti, malgrado le promesse fatte rispetto alla gestione «pubblica». Se gli investimenti dovessero seguire il ritmo degli ultimi dieci anni ci vorranno più di 200 anni per rinnovare l’intera rete idrica. Eppure i privati hanno sempre una grande voglia di mettere le mani definitivamente sull’intero sistema idrico nazionale. La loro è una visione delle cose ben nota, centrata sulla creazione di quattro/cinque grandi gruppi multiutilities parti integranti dei grandi insiemi finanziari/industriali e commerciali alla SUEZ/ENGIE, alla Vivendi, alla EON.
In questo senso, le regioni del Mezzogiorno restano un obiettivo fondamentale. A condizione però che le autorità pubbliche diano il via libera alla privatizzazione della gestione delle acque. Riprendere in mano il controllo dell’ABC di Napoli, così come dell’acquedotto pugliese AQP, il più grande «simbolo dell’acqua pubblica» in Italia fino agli ultimi anni del secolo scorso, è considerato un obiettivo strategico.
Il silenzio che i poteri pubblici della Puglia mantengono sul futuro dell’AQP la dice molto lunga su ciò che è in gioco.
Oramai sono personalmente convinto che la classe politica ed economica della Puglia sia favorevole alla privatizzazione dell’AQP sotto tutti gli aspetti. Per questo, però, devono essere capaci di «passare il Rubicone», cioè dire apertamente e fare approvare pubblicamente dai pugliesi e dalle altre forze associative italiane l’apertura del capitale dell’AQP ai privati, mediante l’accettazione di un notevole aumento della tariffa dell’acqua per i primi 4-5 anni, tra il 4 ed il 7%, affinché il rendimento del capitale immesso dai privati possa essere rapido e significativo. Quindi, totale adesione alla teoria capitalista mercantile dell’acqua fondata sul principio dogmatico che la tariffa pagata dall’utente per un servizio essenziale ed insostituibile per la vita deve finanziare tutti i costi del servizio ed in particolare la remunerazione del capitale (profitto). Se questa condizione non fosse rispettata, nessun capitale privato sarà disposto ad investire nell’AQP. Non solo, ma le autorità pubbliche dovrebbero accettare di procedere alla trasformazione dell’AQP da impresa di servizio idrico integrato in una SpA multiutilities (per di più quotata in Borsa in pochi anni), attiva in altri settori come quelli dei rifiuti, dell’energia, dell’ambiente. Dovrebbero accettare inoltre che che l’AQP multiutilities sia autorizzata a fare alleanze, fusioni e concentrazioni con altre imprese più piccole del Molise, dell’Abruzzo, della Lucania, della Calabria e, a più lungo termine, con le imprese di Napoli, per dare vita ad una grande SPA multiutilities del Mezzogiorno capace di competere con le altre multiutilities europee, specie sui mercati del Mediterraneo e dell’Africa. Sarebbero così raggiunti dei livelli di «rendimento» (ROI-Return on investment) sufficientemente appetitosi per i capitali privati sui mercati finanziari nazionali e mondiali.
Il silenzio da più di un anno e mezzo da parte del presidente della regione Puglia sul futuro dell’AQP è verosimilmente dovuto al fatto che, forse, non era pronto a fare il salto. Il salto sarebbe notevole perché l’AQP cesserebbe di essere una SpA in house quasi pubblica (cosi definita perché sottomessa al controllo analogo da parte dei poteri pubblici, esclusivamente attiva sul territorio della Puglia e operante unicamente nel settore del servizio idrico integrato). Il nuovo AQP non sarebbe più sottomesso al controllo analogo, diventerebbe una multiutilities e opererebbe in altre regioni.
L’organizzazione del Festival dell’acqua a Bari proprio nel palazzo dell’Acquedotto Pugliese in questi giorni (8-11 ottobre) ad opera di Utilitalia, la federazione italiana delle multiutilisties che vede attivamente coinvolte ACEA, HERA, IREN, A12, Suez, Veolia e tutta la crème del mondo tecno-scientifico italiano al servizio del settore privato, deve essere interpretata come un segno della disponibilità finale delle autorità pugliesi a fare il salto?
Tutto sembra suffragare questa ipotesi. Sarebbe un atto fragoroso dell’abdicazione della classe politica e dirigente pugliese e della sua subordinazione agli interessi privati del capitalismo finanziario europeo ed internazionale. Che vergogna, sarebbe. Occorre aspettare, però, la sua ufficializzazione.
Dunque, considerato il contesto, l’iniziativa degli acquaioli del Mezzogiorno, sulla scia delle attività degli acquaioli napoletani/campani e di quelli di Bari/Puglia è di grande importanza. I cittadini dimostrano di essere in allerta, non vogliono cedere alla rassegnazione ma vogliono agire per contrastare lo stato malsano, inefficiente, antidemocratico e socialmente ingiusto della situazione dell’acqua in Italia ed in particolare nel Mezzogiorno.
La «Carta di Bari», approvata il 7 ottobre dai rappresentati della «Rete a difesa delle sorgenti» riafferma con forza e serietà che i cittadini vogliono essere parte attiva nei processi di decisione del presente e del futuro dell’acqua nelle loro regioni. Riafferma altresì la loro scelta, consacrata dal referendum del 2011, in favore dell’acqua bene comune pubblico e del diritto umano all’acqua per la vita, che non deve essere pagato in veste di consumatori ma finanziato come cittadini, dalla fiscalità e dalla collettività. La «Carta di Bari» propone cinque priorità d’azione e di regolazione pubblica a livello regionale/nazionale e europeo/mondiale e specialmente per una politica dell’acqua del Mezzogiorno: promozione (indispensabilità dell’acqua per la vita), protezione (contro l’accaparramento, i furti, l’inquinamento, il bioterrorismo…), prevenzione (innovazioni per ridurre i prelievi, gli sprechi, garantire la conservazione, migliorare la qualità), partecipazione (anima della democrazia) e prossimità (la cura dell’acqua è propria delle comunità). Un bel lavoro collettivo, serio.
Responsabilità d’iniziativa cittadina che contrasta con l’incuria e la pervicacia illegale dei gruppi tecnocratici pubblici e privati al potere.

1 commento:

Anonimo ha detto...

buongiorno ha tutti

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